Proust è una sorta di mare senza sponde in cui è facilissimo naufragare e la sua classicità è tutta da verificare, è un’ipotesi di lavoro, ragion per cui è necessario tentare di mettere a fuoco alcuni specifici valori dell’opera proustiana e la sua particolare posizione storica.
Si può osservare innanzitutto che classico Proust lo è nel senso corrente più ristretto, come di autore entrato a far parte del novero dei grandi della tradizione letteraria europea e narrativa.
La fortuna di Proust, probabilmente superiore a quella di due grandi come Joyce e Mann, attualmente è immensa e testimoniata da una serie di fatti, come il moltiplicarsi delle traduzioni in tutte le lingue, le migliaia di studi di vario impegno in tutto il mondo ogni anno, gli articoli giornalistici; Proust è oggi oggetto di forme di culto, talvolta anche un po’ maniacali. Ci sono moltissime persone in tutto il mondo, Italia compresa, filosofi del linguaggio, ingegneri, medici, insomma, persone comuni, che nutrono una vera e propria venerazione per questo autore, per cui esiste pure tutta una letteratura di tipo aneddotico: si è trasformato da autore in argomento di letteratura, prerogativa di tutti i grandi.
L’impressione però è che l’attuale successo di Proust, a parte quello presso la critica per il quale molto influiscono le ragioni d’accademia, sia più editoriale che altro, ossia più di libreria che di lettura: Proust si compera, si sfoglia, si legge qua e là e poi si mette sullo scaffale.
Il discorso si complica invece e diventa azzardato, se cerchiamo di recuperare le valenze storico – stilistiche del termine “classico”: ci si può chiedere infatti che senso abbia parlare di Proust come di un classico nell’accezione più profonda del termine. La nozione di classicità è complessa, ed è spesso anche confusa come capita talvolta per termini del linguaggio critico e del linguaggio comune: “classico” può avere il significato di generico giudizio di valore, può voler dire acquisito, ma può anche descrivere una categoria storica ed estetica, e allora si parla ad esempio di classicismo francese, viennese, di neoclassicismo; considerando quindi il classicismo da questo punto di vista, allora lo si può certamente definire come “ un’arte che mira all’adeguatezza”, che privilegia la disciplina, i valori di omogeneità e di armonia tra le parti, che implica riferimento alla dimensione dell’umano intesa come valore, che cerca l’equilibrio, nel senso della definizione di Hegel del termine “estetico”, il quale arriva a sancire l’opposizione dei concetti classico – romantico.
Trattando il classicismo di Proust, non ci si riferisce alle conoscenze classiche dell’autore, che ha studiato greco e latino ad altissimo livello, ma si sottolinea piuttosto il collegamento che egli intrattiene con l’area storica del classicismo francese, con i valori, gli atteggiamenti, gli autori e le opere di un periodo dai contorni abbastanza sfumati che va all’incirca dalla metà del Cinquecento fino alla metà del Settecento.
Perché parlare di un Proust classico dato che l’opera dell’autore porta tutte la tracce di un’epoca di crisi, di radicale mutamento e sconvolgimento dei valori e dei linguaggi?
L’opera di Proust è l’opera di un moderno, di un arcimoderno, per tanti aspetti.
Negli anni in cui Proust si forma e lavora, dal 1885 fino ai primi del novecento, si assiste al crollo della cultura positivista e della visione della realtà che tale cultura comportava. Da questo crollo prende origine a livello europeo una riapertura della riflessione sia filosofica che scientifica, politica e artistica, con l’affioramento di varie forme di spiritualismo, di neodialismo e di intuzionismo.
In campo scientifico avviene il superamento dell’empirismo, oltre che del razionalismo classico e l’imporsi delle nuove epistemologie; nascono una nuova matematica e una nuova fisica.
Nell’ambito della riflessione politica sono gli anni della critica del Marxismo.
In campo letterario si assiste al trapasso della linguistica storica comparativa indoeuropea, della linguistica teorica e al recupero di prospettive filosofiche con l’avvento di personalità come quella di De Saussure.
Grandi cambiamenti avvengono in Europa
In questi anni Freud si forma a Parigi, per poi elaborare le sue teorie a cavallo del 1900.
In campo artistico succede tutto quello che sarà variamente sfruttato dall’arte del novecento; si potrebbe affermare che non ci sia invenzione novecentesca che non sia stata anticipata da quell’epoca.
Esempio eclatante che descrive quanto quel periodo fosse dinamico e innovativo, moderno, anti–classico, poco ancorato al passato e proteso verso il futuro, verso nuovi modelli e nuovi traguardi, è l’”Ulisse” di Joyce, pieno di provocazioni dal punto di vista linguistico, con una lettura ostica e complicata. L’ultimo capitolo è scritto con la tecnica del monologo interiore o flusso di coscienza, che sarà poi ripresa dai futuristi con le loro “parole in libertà”, offrendo l’estrema semplificazione delle strutture della lingua, l’eliminazione della sintassi e dei collegamenti. In seguito questo processo verrà usato ed abusato, fino a diventare addirittura stucchevole, ma, come riconosce Joyce stesso, si tratta di una struttura introdotta proprio negli anni ’80 in Francia in un romanzetto di uno degli epigoni del simbolismo, Eduard De Giardac.
Questi sono gli anni in cui lavora Proust, caricando la sua opera di tutte queste tensioni, di tutte queste ricerche, di questo momento culturale di cui egli stesso resta uno dei grandi protagonisti.
Proust fu inizialmente molto attivo nella vita mondana del tempo, un analogo francese di D’Annunzio, per poi dedicare quasi eroicamente l’ultima parte della sua vita alla scrittura e all’arte.
La “Recherche” può apparire al lettore come un enorme romanzo di oltre tremila fittissime pagine di stampo autobiografico; in realtà è sì intriso di elementi di autobiografia, ma non è un’autobiografia a tutti gli effetti perché l’autore manipola continuamente i dati, operando delle modifiche in vista del risultato finale. La “Recherche” è frutto di calcolo, non è travaso di esperienze e di sentimenti. Questo grande romanzo pseudo–autobiografico è anche la storia di un’epoca, della Francia tra il 1870 e il 1920.
Proust in un certo senso realizza la continuazione dei lavori di Balzac prima, che, preso da un appetito gigantale, rappresenta tutto il rappresentabile nello sforzo di ritrarre ogni aspetto della società francese tra il 1815 e il 1840, e di Zola dopo, il quale prosegue idealmente la descrizione con la storia del secondo impero, gli anni ’50 e ’60, prolungandosi fino agli inizi della Terza Repubblica e alla crisi del ’70, benché il suo lavoro sia maggiormente imparentato con i capolavori della tradizione memorialistica francese. Proust deve pochissimo a Zola: nemmeno le dimensioni del libro, essendo il suo un unico romanzo fiume, mentre gli autori realisti scrivono cicli di romanzi in cui le singole parti sono autonome e indipendenti.
L’altro grande modello è costituito da “Le memorie del Duca” di San Simon, uno dei grandi della Francia feudale del fine ‘600 che rievoca con l’altezzosità che gli era solita.
Proust ha una visione ingenua della letteratura: racconta di ricordi, descrive fatti ed avvenimenti, che il lettore prende per veri, ma che veri non possono mai essere, perché un libro è sempre finzione, allegoria. È un testo memorialistico, se si vuole, ma tratta di memorie molto particolari, che vanno interpretate tenendo conto di quello che l’elaborazione artistica e lo scopo estetico comportano.
Innanzitutto, ed è una delle ragioni per cui il lettore si stanca, il ritmo è particolarmente ed eccezionalmente lento: per dare un’idea dei ritmi proustiani basta citare lo stupore di uno degli editori cui Proust presentò il dattiloscritto della prima sezione della “Recherche” il quale espresse la sua incapacità di comprendere come nella cosiddetta “overture” della “Recherche” l’autore, per avviare l’opera, impieghi quaranta pagine descrivendo cosa gli accadeva quando si rigirava nel letto nel dormiveglia. Solo dopo questa lunghissima introduzione infatti comincia veramente il racconto. Nessun memorialista avrebbe agito in questo modo.
Insieme alla ricercata lentezza narrativa, altra differenza sostanziale tra Proust e i memorialisti è l’assenza totale di riferimenti cronologici: in tremila pagine non ci sono date e i riferimenti che possono funzionare da appigli per il lettore sono sempre un po’ ambigui, mentre la prima dimensione che un memorialista si preoccupa di curare è solitamente quella della scansione temporale.
Proust è un memorialista sui generis anche per la dimenticanza sistematica dei fatti: nella Francia che fa da sfondo alla “Recherche” avvengono fatti importanti, muoiono personaggi celebri, si verificano crisi e guerre di varia natura, c’è la separazione dello Stato e della Chiesa; tutto questo è continuamente richiamato, ma è sempre posto su un piano lontano e indefinito, non c’è nessun punto in cui l’autore sospenda la narrazione e descriva la situazione, rendendo ulteriormente difficile la lettura dell’opera, soprattutto per l’uomo contemporaneo, il quale è ancor più lontano dall’orizzonte culturale descritto.
Inoltre la narrazione non si svolge secondo un ordine cronistico–temporale, ma tematico: i fatti sono associati non per la loro vicinanza cronologica ma perché, agli occhi dell’autore, hanno qualcosa in comune, si richiamano gli uni con gli altri. Quindi è uno strano romanzo, una strana narrazione che spesso assume come criterio di sviluppo l’ordine tipicamente tematico del saggio più che della narrazione. La ragione è molto semplice: queste memorie di Proust sono un romanzo della coscienza che cerca di armonizzarsi ai ritmi della coscienza, all’ordine temporale tipico di essa che è diverso dall’ordine temporale della fisicità.
Le prime pagine della “Recherche” evocano il dramma della ritirata serale a Combrain nella casa dei nonni e degli zii.
Perché questo inizio? Non si tratta del primo fatto che cronologicamente capita al protagonista, il quale, poiché si trovava a Parigi, quantomeno doveva aver viaggiato, doveva aveva coscienza di tutto quello che accadeva intorno a lui. Mai è descritto il viaggio che egli fa due o tre volte all’anno per andare in vacanza dai nonni.
Ancora, un memorialista non avrebbe fatto così.
Invece Proust incomincia descrivendo la ritirata serale, il momento drammatico in cui si deve staccare dalla madre e prosegue argomentando, agganciando motivi più o meno congrui per seguire i ritmi della coscienza.
Proust costruisce il libro seguendo questa logica del tutto soggettiva e interiore, non la logica argomentativa ed espositiva tradizionale: si interessa a ciò che succedeva dentro di lui e non fuori di lui.
È il romanzo della coscienza e questo spiega anche perché non ci siano mai descrizioni particolareggiate di fatti e situazioni esterne: non è necessario descrivere avvenimenti precisi e concreti, come un viaggio o una colazione; si tratta di situazioni perfettamente acquisite nella mente. La coscienza è molto più sensibile ad un raggio di sole che entra dalla finestra donando il buon umore; questa è la logica dell’opera.
La mente, avendo ormai acquisito i fatti di cronaca, non ha bisogno che la coscienza li ripeta a se stessa ma da essi parte e “ci ricama sopra”; così nella “Recherche” ci sono “i ricami” sui fatti di cronaca e i commenti, dato che i fatti in sé sono dati per scontati.
In un libro normalmente ci sono degli avvenimenti che durano giorni, settimane o anni e che vengono riassunti nello spazio di una pagina. Il tempo dei fatti, della storia è condensato o costretto in un tempo che è quello della narrazione, molto contenuto. Nel caso di Proust succede il contrario: una scena celebre è quella del primo bacio ad Albertin; è un avvenimento istantaneo, ma viene descritto in una pagina e mezza in cui non si narra tanto del fatto in sé, quanto di ciò che avviene nel protagonista mentre si appresta a dare il bacio.
Questo è il romanzo dell’impressione, il romanzo della coscienza, e questa era la tendenza generale della cultura del tempo, tutta protesa a mettere o spostare l’accento dalla considerazione del fatto inteso come dato oggettivo che si possa definire in assoluto.
È la prospettiva positivista, è il limite dell’epistemologia: la realtà esiste di per sé, sta alla scienza misurarla, porla all’interno di schemi, riordinarla e in questo modo tutto può essere spiegato.
Questa idea si stava superando, si stava spostando l’attenzione dalla considerazione del fatto al problema della visione del fatto; la realtà esiste solo perché entra nella mente di chi osserva, altrimenti si tratta di un qualcosa di indistinto, una massa amorfa; le “cose” esistono nella misura in cui noi sono nominate e definite. Ognuno crea dentro di sé un analogo mentale delle “cose” che è sempre diverso rispetto a chiunque altro, quindi, se non si può conoscere davvero il fatto in modo diretto, si può cercare di conoscere l’immagine di esso che la mente si costruisce.
Da questa scelta di scrivere un romanzo della coscienza mettendosi nel solco di quelli che sono gli orientamenti della cultura del tempo, ma anche della filosofia del tempo derivano alcuni tratti tecnici dell’opera che sono radicalmente innovativi.
Il primo è il superamento del criterio della successione cronologica come fondamento della sequenza narrativa; raccontare ha sempre significato ordinare i fatti sulla linea del tempo e presentarli con questo criterio d’ordine, mentre Proust ordina gli avvenimenti nella misura in cui nella coscienza si amalgamano gli uni agli altri. Ad esempio quando descrive Coumbret e la camera espone ricordi legati alla stanza tramite un procedimento di carattere tematico.
C’è inoltre una novità di carattere tecnico, unitamente allo stratagemma del rallentamento narrativo con il ribaltamento del rapporto tradizionale: il superamento del punto di vista assoluto del narratore, che era una delle basi della narrazione classica. Proust limita il punto di vista della narrazione a quello che è il punto di vista del protagonista, introducendo una delle grandi caratteristiche della narrativa di impegno novecentesca.
Proust è moderno dalla cintola in su, ma il resto del corpo è fondato saldamente nel passato. La classicità sta nell’ossessione per la costruzione, per i rapporti ponderali fra le parti; il suo libro è una cattedrale, una costruzione sinfonica, e si vede in esso la ricerca di una struttura perfetta e perfettamente bilanciata, basti pensare al numero infinito di richiami interni che ci sono nell’opera. Come nelle grandi opere musicali, la terza o la quinta sinfonia di Beethoven, o “Il Barbiere di Siviglia” di Rossigni, anche la “Recherche” sembra scritta di getto; la sua coerenza è tale che sembra il pensiero di un attimo fissato ed espresso, ma è frutto di studio, ricerca, e le varie parti sono legate, cucite e fuse insieme alla perfezione, senza lasciar trasparire nulla del lavoro dell’autore dietro le quinte; gli episodi non accadono mai inopinatamente ma sono sempre annunciati da piccole allusioni, magari con decine di pagine d’anticipo, che possono sfuggire alla prima lettura, ma che ci sono, a centinaia, sparse in tutta l’opera. Questo è un atteggiamento tipico e proprio della scrittura classica, attuato da un autore che conosce l’arte della composizione e la vuole praticare per realizzare un’opera fluida, continua e senza spigoli o fratture interne.
Questo stile di scrittura quasi ossessivo rende evidentissimo il classicismo di Proust: è una scrittura “bella”, esemplare, per quanto complessa possa essere, con uno dei vocabolari più ricchi dell’intera letteratura europea di 12 – 13 mila parole.
Proust adotta il tradizionale lessico psicologico, ma anche quello scientifico con metafore molto ardite, puntando sempre in modo apertamente dichiarato proprio alla “bella scrittura”, alla pagina perfetta e in perfetto equilibrio, elaborando quello che si potrebbe definire un modello di scrittura ornata, una poetica della metafora. Da questo punto di vista è dannunziano, ma senza i limiti della scrittura dannunziana che è antichistica perché legata ai modelli della scrittura tradizionale. La vita vera, vissuta autenticamente, viene posta da Proust in una pagina ben scritta, in modo opposto rispetto alle tendenze letterarie del momento, quando ormai era acquisita, grazie soprattutto alla radicalizzazione della poetica realistica, l’idea di un totale superamento della scrittura di stampo classicistico. Basti pensare a Zola, che con il suo realismo tematico introduce la necessità di un realismo linguistico e con una scelta eclatante comincia nel 78 ad utilizzare un linguaggio gergale, o a Verga che nell’81 scrive “I Malavoglia” in un italiano sicilianizzato.
Tutta la tendenza era nella direzione del superamento del classicismo a livello di scrittura, di modello retorico. Proust invece resta fedele a quel mondo, a quei valori e a quella dimensione. La bella scrittura resta un valore oggettivo per lui, e la classicità, almeno intesa in questi termini, è verificabile a livello stilistico.
Trasferendo l’analisi dalla forma ai contenuti la situazione è analoga.
La “Recherche” è un romanzo della coscienza con le manifestazioni di essa proprie, è la storia di una crescita interiore, un romanzo impressionistico, nel senso che descrive e racconta le impressioni di fronte ai fatti, affrontando le tematiche tipiche di quegli anni e centrali nella filosofia intuizionista del problema della coscienza e l’idea che la coscienza umana sia qualcosa di profondo, complesso, torbido.
La “Recherche” è anche la storia di un progressivo processo di conoscenza, è la storia di un uomo che si trova di fronte alla realtà in una posizione di opacità, travisa i fatti, non ha ancora l’arte di interpretare i segni, e il processo di percezione e cognizione della realtà e delle persone esterne è un altro grande problema enfatizzato dalla cultura del tempo, mentre si tentava di rifondare un’epistemologia generale, essendosi palesati i limiti di quella positivista.
Per conoscere basta accumulare i fatti, che a loro volta sono una creazione propria della mente, perché sono sempre conseguenze di scelte, di prospettive, di pregiudizi e di valori. Si pensi al tema del tempo, introdotto fin dal titolo: l’opera si propone d’essere una sorta di caccia al tempo, in modo quasi romantico. Esistono due tempi nella realtà: c’è quello fisico, meccanico, che si può misurare, che sfugge e al quale l’uomo è sottomesso, e c’è il tempo interiore, quello più intimamente vero, quello dei sentimenti, quello della coscienza; quest’ultimo non si perde mai, ed è creato e custodito nella psiche umana, nell’anima, nella mente. Lo sforzo umano è quello di ritrovare e riportare alla luce questo tempo, perduto e nascosto nei meandri della coscienza, e di riviverlo in qualche modo. In questo modo l’uomo può laicamente innalzarsi a livello del divino, può sconfiggere il tempo, può trascendere la sua essenza presente fondendosi con il suo passato, vivendo contemporaneamente l’oggi e una vita di tempi lontani in senso fisico ma sempre attuali nella coscienza, e, secondo Proust, la via migliore per catturare il tempo e riviverlo è attraverso l’arte.
In questo senso egli afferma “L’arte è la vera vita”, poiché, attraverso l’autocontemplazione artistica, l’uomo può rivivere in meglio la propria vita, in modo autentico, completo, perché l’arte è intensità di partecipazione e sentimento ed è allo stesso tempo pienezza di ragione. Perciò basta riaprire la prima pagina di un libro, del frutto di questa arte, e la coscienza riassapora nel presente l’essenza della vita passata, lontana, ma ora consacrata dall’arte ad un eterno presente. La vita è dispersione, transitorietà, mutamento, non così l’arte.
Un’ulteriore componente classicistica si riscontra nel carattere mondano dell’opera, come fu a suo tempo rimproverato a Proust, il quale ambienta la sua storia nella Francia pre–moderna, ma facendo riferimento all’ambiente che egli stesso definisce “il più stupido, il più futile”, che altro non era se non l’ambiente da lui frequentato, una sorta di regno del nulla, popolato da un’elite sociale di intellettuali nullafacenti.
È la rievocazione della vita dei salotti, un ambiente popolato da parassiti, da persone che vivevano di rendita, senza produrre beni e senza valori morali, con l’unico intento di mettersi in mostra, possibilmente schiacciando e umiliando i rivali.
Proust non si interessa minimamente degli altri aspetti sicuramente più forti e marcati della società francese del tempo, dalla Francia scientifica a quella filosofica, ma si focalizza su uno strato sociale molto limitato, rendendo la mondanità il suo piccolo universo, con modi tipici della letteratura francese classica, che è letteratura “metropolitana”, “parigina”, ovvero d’elite.
L’altra importante caratteristica che lega Proust alla classicità francese è il suo atteggiamento di moralista: Proust si prefigge di esplorare e di definire le leggi e le dinamiche sottilissime del comportamento umano: questo è infatti il vero obiettivo della “Recherche”.
Spessissimo Proust parla nella “Recherche” e nei saggi preparatori della sua ricerca di una dimostrazione.
La rappresentazione sottilissima e acutissima in cui Proust sfoggia il suo talento di drammaturgo è al servizio di una dimostrazione che, come egli stesso afferma, è di ordine morale: spiegando come funziona l’uomo vuole spiegare come funziona il mondo, con il gusto per la massima, per la verità d’ordine generale, verità che appartiene alla sfera della vita dei sentimenti e delle passioni, tipico della tradizione francese classica, da Montaigne in poi.
Questo è il cuore della letteratura francese, questo è il fondamento di questa tradizione.
Proust è l’ultimo e il più grande dei moralisti francesi e si assume il compito di guidare il lettore alla conoscenza del cuore umano.
Ci sono delle osservazioni sulla politica, che sono delle parti centrali della “Recherche”, che vanno in direzione opposta ai luoghi comuni che oggi imperano.
Proust è un “ragionatore”, e attraverso un romanzo della coscienza, fornisce al lettore delle verità di ordine generale; scrive infatti: “Noi siamo complicati…possiamo conoscere poco…ma se rinunciamo anche a quella fiammella che è la ragione, la volontà di capire, di indagare, poco ci resta”.
Pur vivendo in un pieno periodo irrazionalista non è affatto un campione dell’irrazionalismo, restando piuttosto legato, da questo punto di vista, alla tradizione positivista.
Ugualmente però Proust non è neppure un campione della razionalità umana.
Scrive Baudelaire nell’incipit de “Le fleur du mal”: “Dentro di noi, in fondo a noi, ci sono sciocchezze errore, peccato, avarizia”; scavando in profondità nella mente ci si trova poco, solo miseria.
Proust è convintissimo di questo, non miticizza la coscienza, la analizza, la studia, per avere un’immagine più chiara di sé e di quella che è la dimensione umana, misurando tutto con una assoluta lucidità, tale da renderlo comunque un grande autore educativo, pur con i limiti della sua etica.
[1] Testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 6.3.1996 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.